La vera storia della cucina romagnola
di Gabriele Papi
Cesena - Biblioteca Malatestiana - Sala lignea
Venerdì 28 ottobre h. 17,15
Presenta Maurizio Balestra
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Se il cappelletto è anarchico
OGGI IN MALATESTIANA Gabriele Papi presenta “La vera storia della cucina romagnola”
di Claudia Rocchi CESENA.
“Gustosa” presentazione oggi alle 17.15 alla biblioteca Malatestiana. Il giornalista Gabriele Papi presenta il suo volume “La vera storia della cucina romagnola” (Litografia Brighi&Venturi). Introduce l’incontro lo storico Maurizio Balestra. 130 pagine di sapore sincero, sapido ma raffinato, gradevolmente fuori dal coro, frutto di una cottura generosa, rispettosa del territorio di provenienza, ma amorevolmente critica verso di esso. Il volume è arricchito da preziose riproduzioni di copertine della storica rivista La Piê e di belle nature morte del pittore Fortunato Teodorani. Papi allarga lo sguardo sulla Romagna, ne mette in luce la povertà del territorio, l’indole anarchica. Esorta a uscire “dalla sbornia romagnolista” frutto di false leggende campanilistiche che distolgono dalla veridicità storica. E parte da un verità: il cappelletto (romagnolo) è anarchico, il tortellino (bolognese) è codificato. «Non è l’ennesimo libro di ricette – racconta l’autore davanti a un caffè –. È un intervento culturale sulla storia della cucina romagnola. Una riflessione intesa come specchio rivelatore della storia di un territorio».Da dove comincia?«Dall’errore di vagheggiare che ci sia stata una età felice della cucina romagnola. Non è vero perché la Romagna storicamente è sempre stata povera. Diversa da Bologna, la città dell’università millenaria, dove sapere ha lo stesso etimo di sapore».Qual è dunque il ruolo della cucina nella terra romagnola?«È frutto di un’altra storia, di una civiltà contadina casalinga di massaie e azdore che hanno saputo trarre il meglio dai prodotti poveri a loro disposizione. Diceva Aldo Spallicci che la Romagna è un’isola del sentimento e come tale è una identità. Per il resto la Romagna è al plurale, perché diverse sono le declinazioni del dialetto, le rivalità fra le città, le “sette sorelle”. Perché diverso è il compenso dei cappelletti da borgo a borgo, diverso è il ragù, diverso il modo di fare la piadina. Al di là di miopie campanilistiche, la vera bellezza della cucina romagnola, è la sua diversità, la varietà. A patto di evitare le furbate del tipo: è buona perché romagnola».Quale il ruolo dell’Artusi?«Quello di un Garibaldi unificatore dell’Italia gastronomica, un esule romagnolo che capisce la necessità di codificare la cucina italiana. Usa la cucina romagnola e toscana come griglia per le sue elucubrazioni, con il cuoco Ruffilli e la Marietta. Precisa non “di Romagna” ma “all’uso di Romagna”. Artusi intuì che la cucina è un sistema culturale aperto e dunque non è il caso di perdersi dietro falsi primati romagnolisti».Un po’ come fece il successivo Casali.«Che agì da pioniere e da ultimo dei mohicani. Il valore del ristorante Casali fu la struttura di cuoche specializzate, come nelle “minestre”, con attenzione alle materie prime. Mi piace ricordare la battuta del conte Rognoni, giornalista e grande personaggio, quando disse: “Cesena, la città dei tre papi, avrebbe dovuto avere un papa in meno e un Casali in più”».Fu, quella dei Casali, una famiglia innovatrice sulla scia dei Casadei della musica.«Lo dice il fatto che il capostipite Marsilio Casali, nel secondo Ottocento, aprì un ristorante buffet alla stazione ferroviaria di Cesena, luogo nevralgico per traffici. E già nei primi del ’900 aveva intuito l’importanza della pubblicità, la reclame, da apporre sui giornali. Con il buffettiere della stazione Termini di Roma, inventò il famoso “cestino caldo da viaggio”. Con lasagne o tagliatelle inseriva una bustina con due sigarette sfuse per lui, un fiore per lei. Casali non si chiudeva in un recinto, si apriva ad altri prodotti che testava e offriva nel menù».Passando dalla tradizione di tagliatelle e passatelli, si sofferma su modernità di menù, sommelier, agriturismi.«Nel gran mondo che è la cucina, sarebbe opportuno che i menù riportassero l’origine, la tracciabilità, la provenienza delle materie, così come i sommelier smettessero di usare un linguaggio da cartomanti. Mentre gli agriturismi dovrebbero offrire più garanzie sui prodotti del cosiddetto “chilometro zero”, visto che godono di vantaggi fiscali rispetto ai ristoratori».E contesta “derby fratricidi fra le piadine”.«È inutile l’annosa querelle sulla vera piadina, senza che si raggiunga un marchio di tutela. Marciare divisi e lamentarsi uniti, è un metodo miope, utile solo per farsi sorpassare».
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