Oliver Sacks
Oliver Sacks a 80 anni, la gioia della vecchiaia
Oliver Sacks - Tumore in fase terminale
Lettera aperta
Che cosa rivelano le allucinazioni
La natura della consapevolezza
L'uomo che fermò il tempo
L'essenza della medicina narrativa
Elogio dei manicomi

Allucinazioni è un volume del neurologo e scrittore inglese Oliver Sacks. In questa opera, l’autore sviscera in profondità, come suggerisce il titolo stesso, le allucinazioni. E’ curioso vedere come, in epoche e in luoghi diversi, lo stato mentale che conduce alle allucinazioni abbia assunto valenze diametralmente opposte. Oggigiorno le allucinazioni sono considerate un effetto negativo della mente. Sono prerogativa di persone malate, che soffrono di diverse forme di alterazione, di demenza e di psicosi. Chi ne soffre, in genere tende a nascondere il suo malessere. Eppure nella storia dell’uomo, in numerose culture le allucinazioni venivano considerate come una condizione superiore dell’individuo, il quale, riuscendo a percepire ciò che gli altri non percepivano, riusciva ad avvicinarsi maggiormente a ciò che veniva considerato divino e soprannaturale. Storicamente, numerosi popoli avevano delle figure religiose che ricercavano attivamente, attraverso l’utilizzo di droghe e meditazione, uno stato di alterazione mentale in grado di provocare allucinazioni. Con questo volume, Sacks ripercorre la storia delle allucinazioni attraversando diverse epoche e diversi luoghi, raccontando come esse abbiano influenzato il folklore, l’arte e la religione. Nel volume Sacks traccia anche un’autobiografia della sua giovinezza, raccontando delle sue esperienze di vita sulle spiagge della California, tra surf e sostanze psicotrope. Allucinazioni è un volume in cui Oliver Sacks analizza gli stati coscienza alterati sotto il punto di vista storico e clinico offrendo il suo contributo sia in qualità di affermato neurologo, sia come individuo che ha sperimentato tale condizione.
Oliver Sacks, i miei viaggi con l’Lsd

In viaggio verso l’isola dei senza colore
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«Cazzo capo, c'è un romano morto nel bagno.»
«Quando ha finito di pisciare, gli dica di entrare» rispose Héctor Belascoaràn.
Una serata dolce, tiepida, indolente, che non voleva saperne di finire, penzolava dalla finestra.
«Porca miseria, capo, non è uno scherzo» disse dal vano della porta Carlos Vargas, tappezziere e compagno d'ufficio del detective.
Héctor osservava le nubi scivolare lente lungo il soffitto del suo pezzetto di città.
«Ma la lancia ce l'ha o non ce l'ha?»
«Credo che sia proprio ... [Leggi tutto]
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«Cazzo capo, c'è un romano morto nel bagno.»
«Quando ha finito di pisciare, gli dica di entrare» rispose Héctor Belascoaràn.
Una serata dolce, tiepida, indolente, che non voleva saperne di finire, penzolava dalla finestra.
«Porca miseria, capo, non è uno scherzo» disse dal vano della porta Carlos Vargas, tappezziere e compagno d'ufficio del detective.
Héctor osservava le nubi scivolare lente lungo il soffitto del suo pezzetto di città.
«Ma la lancia ce l'ha o non ce l'ha?»
«Credo che sia proprio morto stecchito!»
Héctor si alzò dalla poltrona di pelle su cui aveva trascorso tutto il pomeriggio e guardò Carlos.
Il tappezziere, appoggiato allo stipite con la faccia stravolta, faceva roteare il martello che aveva ancora in mano.
Zoppicando, un po' per una vecchia ferita e un po' perché alzandosi aveva perso una scarpa, Héctor si avviò verso la porta dell'ufficio. Con la mano destra si scompigliò i capelli, come per scrollarsi di dosso la pigrizia.
Ignacio Paco Taibo II
La verità su Alamo
Arcangeli
Ombre nell'ombra
Wikiquote
Semiotica dello studi di Ignacio
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Paul Celan
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Autore : mauba1959
Martedì, 23 Luglio 2013 - 10:16 |

Nel carteggio tra Paul Celan e Ilana Shmueli, la poesia 19, datata 20 gennaio 1970, accompagna la lettera spedita da Paul a Ilana il 22 gennaio 1970. Ilana si trova in quei giorni a Ginevra.
Poesia 19
Da lungo tempo
l’ignoto ci tiene nella rete,
la caducità ci germina dentro
ci pervade perplessa,
conta le mie pulsazioni,
anche quelle, dentro i tuoi battiti,
allora la spuntiamo
contro di te, contro di me
qualcosa ci riveste,... [Leggi tutto]
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Nel carteggio tra Paul Celan e Ilana Shmueli, la poesia 19, datata 20 gennaio 1970, accompagna la lettera spedita da Paul a Ilana il 22 gennaio 1970. Ilana si trova in quei giorni a Ginevra.
Poesia 19
Da lungo tempo
l’ignoto ci tiene nella rete,
la caducità ci germina dentro
ci pervade perplessa,
conta le mie pulsazioni,
anche quelle, dentro i tuoi battiti,
allora la spuntiamo
contro di te, contro di me
qualcosa ci riveste,
di pelle di giorno, di pelle di notte,
per la partita con la somma
serietà.
Paul Celan 20 gennaio 1970 (Traduzione di Anna Maria Curci)
La poesia 20 accompagna la lettera del 24 gennaio 1970 di Paul a Ilana. La data di composizione dei versi, che sono apparsi postumi nella raccolta Zeitgehöft (Dimora del tempo), è indicata dallo stesso Celan: 22 gennaio 1970. Celan annuncia per telefono a Ilana l’invio dei versi. Nella notte tra il 19 e il 20 aprile 1970 Celan si toglie la vita nelle acque della Senna.
Poesia 20
Circondati di luce i semi
che in te
ho affogato nuotando,
liberati a colpi di remo
i nomi – essi
passano per le strettoie,
una benedizione, davanti,
si chiude
nel pugno
meteoropatico.
Paul Celan 22 gennaio 1970 (Traduzione di Anna Maria Curci)
Paul Celan - Wikipedia
Nell'abbraccio del meridiano
Il moribondo innamorato
Paul celan --- Poesie
Salmo
Mandorla
Celan e l’esperienza dell’impossibile
Gli amori impossibili di Paul Celan al tempo della follia
La tragedia di Paul Celan
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Amos Tutuola
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Autore : mauba1959
Venerdì, 5 Luglio 2013 - 08:03 |

da: La mia vita nel bosco degli spiriti
These ghosts were so old and weary that it is hard to believe that they were living creatures. Then I stood at this junction with my right foot which I dangled with fear and looking at them. But as I was looking at each of them surprisingly I noticed that the inhabitant of the room which had golden surroundings was a golden ghost in appearance, then the second room which had copperish surroundings was a copperish ghost and also the third was a silverish ghost...
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da: La mia vita nel bosco degli spiriti
These ghosts were so old and weary that it is hard to believe that they were living creatures. Then I stood at this junction with my right foot which I dangled with fear and looking at them. But as I was looking at each of them surprisingly I noticed that the inhabitant of the room which had golden surroundings was a golden ghost in appearance, then the second room which had copperish surroundings was a copperish ghost and also the third was a silverish ghost
La figura dell’àbiku, dello “spirito-bambino”, compare in un romanzo in lingua inglese con “La mia vita nel bosco degli spiriti” di Amos Tutuola, il geniale scrittore di Lagos che negli anni cinquanta spiazza il mondo letterario con questo incredibile racconto, basato sull’uso di una lingua nuova, un inglese sgrammaticato e incomprensibile ma di estremo fascino. Scritto in prima persona (come tutti e tre i romanzi nigeriani presi qui in considerazione), racconta il viaggio iniziatico di un bambino di sette anni che si trova a vagare nel bosco popolato di spiriti, buoni e cattivi.
Cammina in continuazione, senza mai fermarsi, e incontra un mondo parallelo al suo, a quello tranquillo del villaggio:
” Appena entrai in questa città feci un giro e vidi uno spirito che tra tutti gli altri spiriti che vivevano là lui solo somigliava alle persone terrestri e gli domandai se era terrestre come sembrava e lui rispose così: lo sono e non lo sono. Gli dissi che non capivo mi disse che la sua storia era questa. Vedi noi in questa città siamo tutti ladri e abbiamo derubato innumerevoli donne terrestri in ogni città, paese e villaggio della terra. Se una donna terrestre concepisce, noi scegliamo uno di noi che di notte vada da lei, e mentre la donna sta dormendo lui usa il suo potere invisibile per trasformarsi nel bambino che quando sarà il momento la donna partorirà. E allora terrestre, se arrivi nella tua città della terra e senti dire che una donna partorisce bambini che muoiono sempre o continuamente, allora credimi siamo noi quei bambini, i bambini “nasci e muori"
Amos Tutuola
I fantasmi africani parlano inglese
Amos Tutuola
 Il bevitore di vino di palma
 La mia vita nel bosco degli spiriti
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da Storie, I
Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei farlo alla pari.
Sono molto modesto e non vi domando, amici, altro segno che il gesto. Il resto non vi riguarda.
Canti Orfici
Canti Orfici
Dino Campana - Poesie
Dino Campana - Poesie
Dino Campana di Emilio Cecchi
Dieci poesie dai Canti Orfici
Montale su Dino Campana
Contini su Campana
Bo su Campana
Marradi contro il suo poeta
Dino Campana poeta e marinaio
Ferruccio Busoni e Dino Campana
La diversità di Dino Campana
Il giorno più lungo
"Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa”. (Pampa, da “Canti Orfici”)
"Tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili...".
(Dino Campana, lettera dell'11 aprile 1930 a Bino Binazzi, spedita dal manicomio di Castelpulci)
Affetto da disturbi psichici dall’età di quindici anni, Dino Campana (1885-1932) fu poi vittima di una schizofrenia (ebefrenia) che condizionò seriamente la sua esistenza. Si parla, nel suo caso, di esistenza più che di vita perché la seconda fu un’impresa disperata verso la costituzione di un riferimento che portasse il poeta ad un modo ordinato di comporre.
Non è che Campana intendesse seguire le orme di un qualsivoglia accademismo per cui la forma va inevitabilmente a prevalere sulla sostanza, è che il nostro personaggio pretendeva l’incontrario. Troppo consistente, in potenza, ed anche troppo nuova questa sostanza perché il miracolo potesse riuscire così come lui avrebbe desiderato. Da qui reazioni rabbiose e risentite, confluenti in forti contrasti espressivi.
“Canti Orfici” ospita poesie e prose spesso irrisolte, in senso tradizionale. Sono composizioni sanguigne ed allusive, dominate da una sensibilità eccezionale, ma lasciata a sé, come se da sola avesse potuto realizzare un mondo nuovo, un mondo più significativo di quello noto. Tuttavia non è la sensibilità ad avere il primato, nella sua opera, e neppure il sentimento, bensì è una ragione che fatica a ritrovare se stessa, pur impegnandosi nella ricerca. Inevitabile l’insoddisfazione e inevitabile l’insistenza verso il reperimento di un equilibrio che risolva il problema dell’esistere.
Campana è immerso, suo malgrado, nell’esistenza. Suo malgrado è a contatto diretto con i grandi interrogativi esistenziali e non cerca aiuto dalle risposte preconfezionate o addirittura dalle non risposte (entrambe, intendiamoci, con radici robuste, nei casi migliori). Vagamente, sebbene con puntiglio formale, egli prova a tessere una trama di frasi e di versi internamente e convenzionalmente in possesso di una bussola prestigiosa per uscire dal labirinto, o per lo meno per lenire la fatica del viaggio.
La grande poesia del passato è ai suoi occhi, quando lucidi, un veicolo adatto allo scopo. Ma poi riprende l’irrequietezza, il senso di incompiuto, il timore che anche quelle espressioni siano bolle di sapone. E così il poeta toscano si perde (e in parte si ritrova, ma è solitudine) in composizioni nervose, dove le sensazioni si accavallano e sgomitano per ottenere più ascolto.
Campana è stato molto accostato a Rimbaud, ma fra i due c’è una profonda differenza nell’impostazione. Rimbaud fa una scelta precisa per cui le cose devono piegarsi al suo sentire e la simbologia divenire un vangelo. Poco importa il senso ultimo, valgono la fantasia e l’anarchia creativa: tutto è lecito. Ma tutto ciò è soprattutto contrapposizione ad una mentalità poetica codina, paralizzata sui soliti schemi. E una reazione fisica metaforizzata. L’azione di Campana è fatta di consapevolezza interiore nei confronti di un certo abbandono (un abbandono vigile) nella profondità del tutto, da cui ricava bagliori ed ombre sinistre quasi allo stesso tempo. Più ombre che bagliori, ma i secondi pronti a rivelare un carattere straordinario: però non lo rivelerà a lui, a lui darà solo dei segnali, pur importanti.
A questo punto, il nostro personaggio subisce delle ferite profonde che non riesce a sopportare. La sua malattia peggiora, il suo nervosismo aumenta. Il sistema non lo aiuta di certo. Campana esce a fatica da un’esperienza degradante: nel 1913 consegna a Giovanni Papini uno scritto “Il più lungo giorno” che pochi giorni dopo finisce sulla scrivania di Ardengo Soffici. E’ una copia unica. Passa del tempo, nessuna risposta, Campana chiede la restituzione. Ma lo scritto non si trova (si ritroverà solo nel 1971, nell’archivio di Soffici, morto sette anni prima), il nostro poeta si dispera, poi si decide a riscriverlo. Sarà un’altra cosa, i “Canti Orfici” appunto, che a spese del Nostro (grazie ad amici, in verità) verrà stampata.
Per capire la personalità disturbata di Campana basta dire che l’opera era dedicata a Guglielmo II re dei Germani (l’autore se ne pentì e cancellò la dedica a più copie possibili, cercando di reperire anche quelle già vendute). L’opera riproduceva, a conclusione, la poesia di un altro poeta “diverso”, Walt Whitman.
Il successo critico di Campana si deve principalmente a Emilio Cecchi, Giovanni Boine e Domenico De Robertis; recentemente a Eugenio Montale e a Mario Luzi (autore della prefazione a “Il più lungo giorno” pubblicato nel 1973).
Il più lungo giorno (film)
Turbinosa e dolorosa, per il Nostro, la relazione che ebbe con Sibilla Aleramo. Campana morì banalmente a seguito di un’infezione provocata da un tentativo di fuga dal manicomio di Castelpulci, non lontano da Scandicci, in provincia di Firenze (dove ci stette quattordici anni). Egli era intento a realizzare una delle solite fughe (in passato Campana era stato un po’ dappertutto, persino in Argentina – fatto dubbioso per alcuni, fra cui Giuseppe Ungaretti), quando un filo di ferro lo ferì, causandogli una setticemia: assurdità vittoriosa di un prodigio.
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