IL MIO CINEMA DI MARIO MONICELLI
Il primo regista con il quale ho lavorato era un cecoslovacco, si chiamava Machaty´. Era il 1934. L’anno prima aveva vinto a Venezia con un film «scandalo»: Ecstasy. A dire la verità non si trattava di una grande pellicola, ma fece molto scalpore perché conteneva la prima scena di nudo della storia del cinema. L’attrice in questione, Dorothy Lamarr, veniva immortalata mentre passeggiava senza veli per i boschi della Boemia. L’effetto sul pubblico fu tale che il film ebbe la Coppa Mussolini e il regista fu chiamato a Hollywood. Proprio quando era in procinto di trasferirsi negli Stati Uniti dalla Cecoslovacchia, il nostro ministero della Cultura popolare – il famigerato Minculpop – intercettò Machaty´ e gli chiese di fare un film in Italia. Lui era qui con tutta la sua piccola troupe composta dalla prima attrice, un assistente, un montatore, un direttore delle luci… cinque o sei persone in tutto.
Girarono un film che si intitolava Ballerine. Quella fu la prima volta che io lavorai su un set. Facevo – diciamo così – l’«aiuto attrezzista»: mi occupavo sostanzialmente di trasportare i mobili, spostare i pezzi della scenografia, ma anche di portare le bottiglie d’acqua, aiutare il regista a mettersi il paltò, ad accendere la sigaretta… Insomma, ero un ragazzetto che si dava molto da fare. Avevo 19 anni ed ero contentissimo. I 19 anni di allora non possono essere confrontati con quelli di oggi: allora, a quell’età, si era ancora un po’ imbranati, un po’ ragazzini; si guardava il mondo con un’aria stupefatta.
Naturalmente quelli erano gli anni del regime, del fascismo. Ma il rapporto fra il cinema italiano e il fascismo fu sempre molto particolare. La situazione era molto diversa rispetto a quella dell’informazione e della stampa. Lì margini di libertà proprio non ce n’erano. Ricordo gli articoli di Montanelli, colui che oggi viene celebrato come il più grande giornalista italiano, l’icona della stampa libera e indipendente. Le sue esaltazioni del fascismo e del duce di cui scriveva coniando addirittura degli aggettivi ad personam per Mussolini, tipo «oceanico» e robe di questo genere. Montanelli, Missiroli e tanti altri esaltavano il fascismo e le guerre nelle quali il regime coinvolgeva il paese così come faceva Malaparte. Quest’ultimo, però, lo faceva con la chiarezza dell’uomo schierato, mentre le persone come Montanelli e Missiroli ci tenevano a far vedere di essere dei «liberali». Ecco chi era il campione del giornalismo libero così glorificato ai giorni nostri.
Tutto questo per dire che la realtà della carta stampata e dell’informazione in senso stretto era assolutamente priva di spazi. Per quanto concerne il cinema, invece, non si poteva parlare di politica – e tanto meno, ovviamente, si poteva parlare male del fascismo – ma non era nemmeno richiesta un’esplicita celebrazione del regime. Si faceva un cinema «piccolo-borghese» incentrato principalmente su vicende d’amore. Ricordo ad esempio film come Mille lire al mese o Il signor Max.
Era il cinema dei «telefoni bianchi», ovvero produzioni senza troppe pretese ma con un cospicuo pubblico, che in più offrivano una certa possibilità di imparare il mestiere. Soprattutto dopo che fu costituito l’Asse Roma-Berlino (l’alleanza fra l’Italia fascista e la Germania di Hitler) e fu proibita la circolazione del cinema americano, che in quegli anni imperversava. Da quel momento in poi la nostra produzione nazionale di film crebbe considerevolmente. Fu allora che nacque Cinecittà.
Il regime dava soldi in abbondanza al cinema, purché questo non rompesse troppo le scatole. E quel mondo rispondeva con i film dei «telefoni bianchi» e, inizialmente, con qualche pellicola di propaganda. Ma poiché quest’ultime erano fatte piuttosto male, non ebbero un grande successo e presto il regime rinunciò anche a commissionarle. Fu però proprio in uno di questi film di propaganda che ebbi la mia seconda esperienza sul set, dopo quella con Machaty´. Andai a finire in Libia, dove girammo un film che parlava di un giovane italiano alto-borghese che, a causa di una delusione d’amore, decideva di arruolarsi nelle truppe coloniali. Il lavoro si intitolava Lo squadrone bianco e lo dirigeva Augusto Genina. Un grande regista – che aveva lavorato nel cinema tedesco e francese dopo il fallimento dell’Unione cinematografica italiana – ma privo di idee e convinzioni politiche: si prestava a fare di tutto. Fece anche un film di esaltazione della guerra di Spagna: L’assedio dell’Alcazar.
Una precisazione si rende però necessaria per capire il contesto nel quale vivevamo in quegli anni: allora erano tutti fascisti. Gli italiani appoggiavano tutti il regime, tranne quei pochi disperati che stavano in Francia o che erano stati mandati al confino a Ventotene o in un qualche altro posto. E in più questi dissidenti erano tutti di una certa età: i più giovani erano tutti «fascistissimi», tutti convinti che avremmo vinto la guerra e saremmo diventati, al seguito della Germania, i padroni del mondo. Poi naturalmente molti di questi furono prontissimi a riciclarsi e a rifarsi una verginità all’indomani del crollo del regime. La cosa fu all’origine anche della tragedia familiare che mi colpì a guerra appena finita.
Mio padre era stato un giornalista molto importante. Partito da posizioni socialiste era poi passato con i liberali e, come molti liberali, aveva inizialmente visto nel fascismo un argine contro il «pericolo bolscevico» e con il suo giornale – era direttore del Resto del Carlino – lo aveva sostenuto, sebbene con uno stato d’animo assai riottoso. Con il delitto Matteotti – quando il regime si presentò per quello che realmente era, rivendicando il suo volto violento, sanguinario – mio padre passò all’opposizione. Scrisse sul suo giornale tre o quattro articoli nei quali denunciò il delitto con toni molto accesi e così gli fu tolta la direzione e la proprietà (era anche il proprietario del giornale, oltre che il direttore). Gli fu anche proibito di firmare qualsiasi articolo – non solo di politica, ma di qualunque argomento – con il suo nome.
Mi ricordo – avevo più o meno otto anni – quando la nostra casa sopra le colline di Bologna fu presa di mira da un gruppo di fascisti, un gruppo di giovanotti col fez che cominciarono a tirare sassate contro le finestre. Io ero esaltatissimo, vedevo mio padre come un eroe. Invece i suoi colleghi giornalisti non ebbero alcun problema a lavorare nelle redazioni dei vari giornali fascisti. Me li ricordo quando venivano a casa nostra a raccontare i pettegolezzi, a sghignazzare sul fascismo, sul Duce, sulle pagliacciate dei gerarchi che saltavano dentro i cerchi di fuoco nel corso delle parate ufficiali… Poi però il giorno dopo tornavano in redazione e scrivevano panegirici di Mussolini, della guerra, delle folle oceaniche sotto palazzo Venezia.
Quando poi il regime crollò, tutti a salire sulla barca della democrazia: gli stessi che fino al giorno prima avevano esaltato il fascismo. Ma mio padre, che durante il Ventennio era stato estromesso poiché antifascista, non fu affatto reintegrato nel suo vecchio lavoro. Continuò a essere un emarginato, anche perché nei posti che contavano erano rimasti quelli che c’erano durante il regime. E questo lo portò al suicidio. Fu un gesto sbagliato, niente affatto eroico, che cinematograficamente potrebbe essere raccontato all’interno di una storia piena di sarcasmo. Ma maturò proprio dentro questa cornice di comprensibile amarezza e indignazione.
L’8 settembre me lo ricordo molto bene. Ero a Napoli perché, dopo aver fatto la guerra in cavalleria, mi avevano fatto passare ai carri armati e dovevo imbarcarmi, insieme al mio reggimento, per la Libia. Non dimentico il terrore di quelli che partivano. Se si riusciva ad arrivare in Libia non c’era alcun problema perché tanto tutti si arrendevano; se uno riusciva a toccare terra la cosa era fatta, era salvo. Il problema era il tragitto, che durava cinque, sei giorni: se ti siluravano il traghetto andavi a fondo e affogavi come un gatto, senza possibilità di difenderti. Centinaia di soldati, tutti sulla tolda, in attesa, andavano a fondo all’improvviso nel giro di pochissimo tempo. Ogni dieci, dodici giorni veniva letto l’elenco di quelli che si imbarcavano e allora si diffondeva il terrore. Per fortuna, però, il mio nome non fu mai pronunciato e presto i viaggi dei traghetti si fecero sempre più rari perché nell’ultimo scorcio della guerra il Mediterraneo era ormai diventato un lago inglese.
L’8 settembre quindi ero a Napoli. Ricordo che tolsi l’uniforme – ero sottufficiale – e uscii dalla caserma con una giacchetta che avevo in valigia. Mi avviai a piedi verso Roma seguendo la strada ferrata. Non conoscendo le strade, uno andava alla stazione e poi seguiva la ferrovia, così era sicuro di arrivare a destinazione. E infatti la strada ferrata ospitava una grande processione di soldati che tornavano ciascuno a casa propria. Quando passava qualche aereo tutti si buttavano di lato e poi, poco dopo, il serpentone si ricomponeva.
Appena sono tornato a Roma sono stato contattato al telefono da un tale che si chiamava Comunardo Braccialarghe. Proprio così, Comunardo Braccialarghe. La famiglia Braccialarghe era una famiglia di anarchici e lui era stato chiamato così in onore della Comune di Parigi. Io ero socialista, in giro lo sapevano, e allora mi contattarono. Formammo un piccolo gruppo di cinque o sei elementi e ci occupammo principalmente di tenere in piedi alcuni contatti, trasportare pacchi, prestare servizi di protezione e scorta. Questo fu il mio piccolo contributo alla Resistenza fino a quando non arrivarono gli Alleati.
A causa del consenso di massa del quale godeva il regime e che ho cercato di rendere anche con queste brevi istantanee, quando il fascismo crollò, davvero venne meno un mondo nel quale la stragrande maggioranza degli italiani aveva creduto. Lo shock fu tale che aprì le porte a una stagione di grande sperimentazione, nella quale fu abolita quasi ogni censura e potemmo girare film fino a poco tempo prima assolutamente impensabili.
Io firmai la sceneggiatura di un film con Macario che si intitolava Come persi la guerra e che fu un grandissimo successo. Era una farsa, anzi una farsaccia, che conteneva una denuncia feroce contro l’insipienza del regime, dei vertici dell’esercito italiano, di coloro che ci avevano condotto in guerra.
Quella stagione unì la creatività sprigionatasi con la fine della repressione fascista alla capacità produttiva ereditata dagli anni del regime, anni nei quali non solo fu edificata Cinecittà ma si formarono maestranze di altissimo livello dal punto di vista tecnico. Appena finita la guerra credo che la nostra industria cinematografica fosse seconda solo a quella degli Stati Uniti, e questo ci permise di cominciare da subito a sfornare 50-70 film l’anno, che in poco tempo diventarono 250.
Oggi il cinema italiano del secondo dopoguerra è identificato con il neorealismo. Ma quello era un cinema di élite: tutti si inchinavano, la stampa ne celebrava gli autori, la critica ne incensava i registi. Ma il pubblico mica li andava a vedere i film neorealisti! Andava a vedere i film di Totò o Come persi la guerra. Per questo non facevo il «neorealismo», ma questa sorta di… «neofarsismo». Facevamo un cinema molto autentico che trattava temi importanti – il problema della casa, del lavoro, della sopravvivenza quotidiana – ma in chiave niente affatto drammatica, con attori come Totò o Aldo Fabrizi che venivano dal teatro leggero ed erano popolarissimi.
In fondo è da lì che nacque la commedia all’italiana, da quel gruppo di autori e registi – Comencini, Risi, Steno, Age, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi, Fulci eccetera – che scelse di raccontare con ironia, e talvolta addirittura con i toni della farsa, la società italiana di allora e i gravissimi problemi che la attraversavano. Per altro devo dire che il cinema italiano del dopoguerra fu una grande opera collettiva.
Ci frequentavamo tutti – attori, registi, sceneggiatori – andavamo negli stessi locali, negli stessi bar, negli stessi ristoranti. A parte Visconti – che era pieno di quattrini e non aveva bisogno di niente – eravamo tutta gente giovane e senza una lira. Nessuno di noi aveva una casa personale: dormivamo tutti in camere ammobiliate e quando c’era da lavorare, da scrivere, ci trovavamo sempre in quei due o tre soliti bar di Roma, che erano un po’ il nostro ufficio. Uno era il Caffè Greco di via Condotti, un altro il Notegen di via del Babuino, un altro ancora si trovava dove oggi c’è il McDonald’s a piazza Mignanelli, accanto a piazza di Spagna.
Fra i ristoranti ricordo il Cesaretto a via della Croce, Otello e Il Re degli Amici. Dai Fratelli Mende, invece, sulla via Flaminia si ritrovavano i pittori – ricordo fra gli altri Trombadori, Consagra – che spesso si menavano. Erano tremendi, se non erano d’accordo fra loro scattavano delle risse terribili.
Noi del cinema invece eravamo più tranquilli, andavamo molto d’accordo, non c’era rivalità. Anche perché a un certo punto, come ho detto, si facevano tra i 200 e i 250 film l’anno, quindi lavoro ce n’era in abbondanza per tutti. Ci passavamo le commesse fra noi, ci scambiavamo i favori, indirizzavamo chi aveva meno lavoro verso i progetti nuovi che nascevano. Insomma, c’era un clima di grande unità e collaborazione.
Fu così che nacque anche La grande guerra. Durante il fascismo ci avevano fatto il lavaggio del cervello con la prima guerra mondiale: ci veniva raccontata come la quarta, l’ultima guerra d’indipendenza. Ci veniva detto che il popolo italiano si era destato da ogni paesino della Sicilia, da ogni entroterra sperduto della Sardegna e si era riversato sulle Alpi per respingere lo straniero e liberare Trieste. Una falsità tremenda! Negli anni ’15-’18 l’Italia era un paese del «quarto mondo», il 70 per cento dei suoi abitanti era analfabeta. I soldati mandati a combattere al fronte venivano buttati nel fango, in trincee scavate nelle montagne gelate, malnutriti, male armati e mal comandati… nemmeno sapevano perché si trovavano lì. Il nostro film voleva sfatare tutta questa falsa retorica che era stata costruita intorno alla prima guerra mondiale dal fascismo. Approfittando della fine della censura – la censura era molto rigida per quanto concerneva gli aspetti del «buoncostume», ma si era assai attenuata per quanto riguardava il punto di vista storico o politico con il quale veniva girato un film – scrivemmo una sceneggiatura con l’obiettivo di restituire la memoria della guerra alla sua cruda e amara realtà.
Un libro che utilizzammo molto per la sceneggiatura fu Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. Un racconto straordinario, dal quale prendemmo molte situazioni, battute, personaggi. Andai anche a trovarlo, Lussu, per chiedergli l’autorizzazione a utilizzare il libro e corrispondergli in caso i diritti. Ricordo che la moglie, Joyce – una donna antipaticissima – mi trattò molto male. Lussu era ben disposto e in fondo penso fosse divertito del fatto che il suo libro venisse messo in scena in un film come il nostro, ma la moglie praticamente non mi fece parlare. Potevamo fare quello che ci pareva con il libro – disse – e non dovevamo pagare un soldo, ma loro non ne volevano sapere nulla. E dopo poco mi buttò fuori di casa. Fu davvero scortese. Più in generale, al mondo della cultura non piacque affatto l’operazione che facemmo con La grande guerra poiché era un mondo ancora molto legato a certi stereotipi della storia nazionale. Carlo Emilio Gadda, ad esempio, si offese molto e scrisse cose durissime contro il film. Durante il regime la grande guerra era intoccabile e ora ci facevano un film quelli della commediola, quelli di Guardie e ladri e di Totò cerca casa… Gadda scrisse che nessuno in Francia si sarebbe mai sognato di fare una cosa del genere.
I personaggi che poco tempo prima venivano descritti come eroi nazionali, ora venivano trasformati in uomini comuni senza alcuna aura sacra, e in più interpretati da attori come Sordi, come Gassman, che fino a ieri avevano recitato solo in commediole goderecce, divertenti e molto popolari: questi erano i discorsi che comparvero sui giornali dell’epoca. Un altro assai critico fu Norberto Bobbio. In ogni caso noi ci difendemmo con molta fermezza da queste accuse e il film fu un successo strepitoso. Un’altra pellicola che diede molto fastidio fu – l’ho citata sopra – Guardie e ladri. Era la storia di un poliziotto che faceva amicizia con un ladro. Erano entrambi due miserabili, con molti problemi in comune: da qui l’intesa che li legava. E così il ladro, per non far perdere il posto al poliziotto, alla fine accettava di farsi arrestare. Naturalmente questa immagine della «forza pubblica» che davamo nel film fu molto criticata, ma la pellicola fu un altro successo straordinario.
In Totò e Carolina, invece, c’era questa ragazza sbandata che veniva riaccompagnata al paese natale da un poliziotto, ma nessuno voleva riaccoglierla. Alla fine era lui ad aiutarla, insieme a un gruppo di comunisti che stavano andando a fare un comizio da qualche parte. Era un film molto sovversivo se teniamo conto di quale fosse la morale e il comune senso del pudore di quegli anni. E infatti ebbe moltissimi problemi con la censura. Ma ancora una volta il pubblico rispose in modo straordinario.
Questi film piacevano perché facevano ridere raccontando storie amare. Inizialmente lo spettatore, guardando un certo personaggio e seguendo una certa situazione, pensava a quanto lui era diverso da quel personaggio e a quanto improbabile fosse la situazione nella quale si trovava. Ma dopo un po’, sotto sotto, sentiva che un filo rosso profondo lo legava a ciò che veniva rappresentato nel film. Pensiamo al fenomeno di Alberto Sordi. Lui si è inventato il personaggio di un italiano vile, sopraffattore, inaffidabile, pronto a qualsiasi bassezza, insomma di un italiano immondo con cui gli italiani si sono divertiti follemente. Come mai? Perché pensavano che fosse una cosa che non gli corrispondesse, ma sotto sotto ne sentivano il richiamo. All’estero Sordi non lo possono vedere. Si chiedono: ma come fa a divertire questo essere immondo? Cosa c’è da ridere?
Apro qui una parentesi su Alberto perché è in assoluto l’attore più strepitoso con il quale abbia mai lavorato. Nessuno è stato come lui. Sordi non era un uomo colto, non era un intellettuale. Aveva solo un po’ di cultura musicale che gli veniva dal fatto che il padre suonava non so quale strumento a fiato in quale orchestrina. Aveva anche studiato un po’ di canto, era un basso profondo. Ma era fondamentalmente ignorante e non aveva fatto alcuna scuola. Era approdato al cinema dopo aver fatto qualche parte a teatro, ma senza una formazione specifica. Un po’ come Tognazzi.
|